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IL PROFUMO DI YVONNE
(LE PARFUM D'YVONNE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 29 marzo 1994
 
di Patrice Leconte, con Hippolyte Girardot, Jean-Pierre Marielle, Sandra Majani, Richard Bohringer (Francia, 1994)
 
Alla cinepresa il regista del film Patrice Leconte
MR. HIRE o LE MARI DE LA COIFFEUSE raccontavano la medesima storia: quella di una fissazione, di una implacabile ossessione, destinata a materializzare i propri fantasmi.

LE PARFUM D'YVONNE non solo si apparenta a questa tematica, che ha segnato tutto il cinema del suo autore, ma la sospinge ai limiti del sopportabile. Ecco spiegate le ragioni dell'accoglienza contrastata riservata all'ultimo film di Patrice Leconte: del quale i "Cahiers du Cinéma" hanno scritto che "spia ormai sotto le gonne", e nel quale "una passione amorosa è filmata con la sensualità di un dentista". Ora, non fosse che per difendere le legittime aspirazioni dio una categoria professionale, è più che lecito dissentire (magari anche parzialmente) dal solito trancio esasperato, e non sempre disgiunto da interessi di parrocchia, delle celebre rivista parigina.

Non è difficile immaginare ciò che ha sedotto il regista, del romanzo "Villa Triste": proprio il "flou", per il quale è celebre il suo autore, Patrick Modiano. Tutto è indefinito, molle, abbandonato (ma, attenzione, non sfuocato: che, al contrario, è proprio l'implacabile nitidezza della fotografia - o, egualmente il suo sgranarsi in un pastello stemperato - a dettare le infinite, affascinanti perché così facili, trasposizioni temporali di LE PARFUM D'YVONNE) in questa storia, se così possiamo definirla, girata attorno ad un Lemano raramente così bello. Tutta narrata dal punto di vista, già di per sé vacillante, di un giovane pigro che cerca soprattutto d'evitare la guerra d'Algeria (siamo sul finire degli anni Cinquanta). E che - solita hall, solito grand'hotel - incontra Yvonne: sorta d'interminabile, ovviamente giovane, apparizione bionda, altera ma di un'alterigia temperata dall'inesperienza, misteriosa, ma poi nemmeno tanto da quando la sentiamo confessare di voler diventare contessa, oppure attrice. Attorno ai due, la corte, inutile dire altrettanto sfasata, dei personaggi di circostanza che assistono all'assenza di avvenimenti: primo fra tutti l'impresario della bella, oltre che dandy omosessuale e decadente, al quale Jean-Pierre Marielle offre la consistenza di un mestiere come al solito impeccabile.

Dire che tutto ciò sia vano è il solito pleonasmo: perché è proprio la vanità ciò che Leconte desidera filmare. Vanità non solo degli sforzi dei personaggi per sfuggire alla propria abulia: che è poi la propria insicurezza, la propria angoscia, tanto più ingiustificata (più vana... ) per il fatto di essere assolutamente immotivata. Ma vanità di un'atmosfera più che di un'epoca, fatta di quel languore e di quella melanconia, di quei tempi sospesi ed al tempo stesso misteriosamente minacciati, che fanno parte dell'universo dello scrittore.

A questa vanità, a questa superficialità letteraria che rende la materia, i personaggi (per non dire le psicologie) del tutto impalpabili ed evanescenti, si oppone lo sguardo del regista: che, al contrario (ed è proprio in questo che risiede il fascino di un film non a caso intitolato al senso olfattivo) tende a materializzare l'astrazione, a filmare le nostre fantasie. Eccoci allora al preciso calcolo del calligrafismo lecontiano: quello delle inquadrature, del tono della fotografia e della saturazione delle tinte, dell'uso epidermico del primissimo piano, che si alterna al respiro delle panoramiche più ampio Un approccio fisico ad una realtà immateriale: materiale, come solo può esserla quella cinematografica, a delle sensazioni che devono l'angoscia proprio alla loro vacuità.

In equilibrio eternamente instabile fra queste esigenze contrastanti, il cinema di Leconte è allora felicemente libero di irritare, o esaltare.


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